Islam e violenza

riflessioni teologiche

Questo articolo del 2004 risente in modo particolare del clima teo-con creatosi dopo l'11 settembre. E alimentato tra l'altro, da un settimanale come Tempi, a cui, a quel tempo, ero molto legato. Oggi però non parlerei di “islam”, ma distinguerei un islam prevalso a livello storico, da possibili interpretazioni pacifiche dell'islam. Quali sono quelle dei sufi, ad esempio; o quale è quella di Wael Farouq, ma anche di moltissimi altri.
Anche perché le cose anche giuste che vi venivano dette potevano suonare, anche se non era questa la mia intenzione, come legittimazione di quell'interventismo americano in Medio Oriente che si è rivelato poi deleterio.


Pubblicato su Libertà di educazione, n. 2 [2004], pp. 92-5.

premessa

Dopo l'11 settembre, molto mondo occidentale è stato costretto a interrogarsi su questo nesso. Poi le cose, nel giro di due anni, sono per molti di nuovo cambiate: da una parte non ci sono stati altri attentati in Occidente paragonabili a quelli dell'11 settembre, e d'altro lato l'America, con le sue imprese militari in Afghanistan e soprattutto in Iraq, è apparsa nuovamente “dalla parte del torto”. Molti infatti hanno dimenticato il nesso tra 11 settembre e azioni militari contro il terrorismo, e hanno finito col (ri-)credere che gli Stati Uniti siano animati da una incurabile malattia bellicista, senza scopo, se non forse l'interesse economico[1].

Così, pur di dare tutta la colpa agli odiati Stati Uniti e, sotto sotto, pur di mettere sotto accusa la propria stessa cultura, molti hanno finito con lo stendere un velo di dimenticanza sul problema di quel nesso, islam-violenza, che pure l’11 settembre aveva costretto a percepire con ineludibile imponenza.

Poiché però un’umanità senza memoria e senza pensiero non può essere libera, e nemmeno sicura, vogliamo riprendere, pacatamente, ma senza sconti, la questione del nesso islam-violenza.

Un importante nota bene

Trattando di una simile questione due sono gli errori da evitare: da un lato ritenere che, non potendo demonizzare (tutti) i mussulmani (in quanto tali), si debba procedere a una sistematica “sanatoria” dell’islam, tacendone ogni oggettivo limite; dall’altro ritenere che, essendoci nell’islam in quanto tale dei fattori oggettivamente negativi, ad esempio dei presupposti all’aggressività e alla prepotenza, sia lecito disprezzare i mussulmani, le persone cioè che, essendo nate in un contesto islamico, ne hanno assimilato i valori.

Una distinzione fondamentale invece dovrebbe orientare un corretto modo di ragionare su questo, come su altri simili problemi: la distinzione, per dirla con i termini di Giovanni XXIII, tra errore e errante, o per usare un lessico maritainiano, tra “cuore dolce” (verso le persone) e “intelletto duro” (verso le idee erronee).

Individuare dei limiti e delle potenzialità negative in una dottrina non significa alimentare dei pregiudizi ostili o porre delle premesse discriminatorie verso le persone che quella dottrina seguono. In ogni caso è meglio mettere sull’avviso pacatamente, finché si può ancora ragionare e dialogare, che trovarsi a fronteggiare una ondata di livore di massa contro i mussulmani, in seguito a qualche, tutt’altro che improbabile se andiamo avanti così, episodio stragistico particolarmente efferato. L’eccesso di buonismo dilagante oggi crediamo non ci metterebbe molto a tramutarsi, se si viene toccati sul vivo (e si parla di morire), in un odio furioso e incontrollabile. Meglio un po’ di controllata chiarezza oggi, che un incontrollato furore indiscriminatamente omicida domani.

A che livello ci poniamo

Non ci poniamo a livello storico, anche se sappiamo che la storia offre abbondante materiale sul tema in questione. A noi sembra ad esempio innegabile che mentre il Cristianesimo si diffonde grazie alla testimonianza, fino al martirio di sangue, dei suoi seguaci, l’Islam invece si diffonde con la spada. Altrettanto innegabile ci sembra che la storia dell’Islam reale[2] documenti di una diffusa aggressività verso i non-mussulmani, con pressioni quanto meno economiche e giuridiche, fino a giungere a fenomeni di massacri sanguinosi.

Ma inoltrarci su questo terreno lascerebbe più facilmente un margine di incertezza, per l’abitudine, invalsa da decenni ormai in molta cultura occidentale, di assolvere qualsiasi cultura non occidentale, per quanto sanguinaria e disumanizzante, in base al presupposto, sulla cui creativa allegrezza non ci pare occorra insistere, che “al confronto con l’Occidente e col Cristianesimo, … non è niente”.

Ci poniamo perciò non sul piano della storia, ma su quello, molto meno opinabile, della dottrina.

Il punto

Si tratta di capire una cosa: l’Islam realizza una mixer singolarmente micidiale. Quale? Quello tra verità assoluta e naturalismo. Da un lato infatti l’Islam ritiene di essere detentore della verità assoluta, dell’unico vero modo di rapportarsi all’Infinito, al Creatore a cui tutto è dovuto, a cui quindi è dovuta una sottomissione incondizionata. La dottrina islamica è categorica in proposito: al punto da ritenere che chiunque osi dubitare che Allah si è rivelato al Profeta sia destinato all’Inferno, e nella stessa vita presente meriti disprezzo e persecuzione. D’altro lato l’Islam è chiuso in un orizzonte naturalistico: nel senso che tra l’Infinito e il finito sussiste ed è destinato a permanere un distacco abissale. L’Infinito non entra nel finito, come invece crede il Cristianesimo, per il quale il Verbo si fa carne, ma rimane nella sua inaccessibile trascendenza, e interviene non nei fatti, ma in uno scritto, consegnando una volta per tutte a un uomo, il Profeta, la busta sigillata con i suoi voleri, il Corano, per non rifarsi poi più vivo per tutta la storia. Il finito così resta chiuso nella sua finitezza. L’uomo quindi deve arrangiarsi con le sue sole forze: non esiste per l’Islam grazia nel senso di energia soprannaturale che il Mistero elargisce all’uomo, partecipandogli il suo modo di conoscere, di amare e di agire. Le forze naturali della creatura sono sufficienti ad assicurarle una condotta meritevole di salvezza. Mentre per il Cristianesimo divino e umano si intrecciano e interagiscono nella storia, per l’Islam l’umano è e resta sempre e solo umano, e il divino sta là, nella sua irraggiungibile, infinita lontananza. Naturalismo dunque come opacità della natura (umana): la natura è sempre e solo natura, non viene permeata e lievitata dal soprannaturale, cioè dal divino stesso che le si interseca.

Il punto dunque è questo: so qual è la verità assoluta, e la posso e devo applicare con gli unici mezzi che ho a disposizione, che sono mezzi puramente umani, naturali (nel senso di poggianti sulla natura umana, sulle sue sole forze).

In altri termini: ho un fine alto (applicare l’assoluto, l’infinito) e dei mezzi bassi (puramente naturali, finiti). Questo è il cortocircuito insito nella dottrina islamica, che pone una premessa remota a un senso di impotente impazienza, e quindi potenzialmente di violenza. Mentre il Cristianesimo, che ha un fine alto (il rapporto con l’Assoluto) e dei mezzi alti (soprannaturali) e l’immanentismo relativista, che ha un fine basso (vivere in modo piacevole) e dei mezzi bassi (puramente naturali), godono di un loro equilibrio e di una coerenza tra fine e mezzi, l’islam invece è sospeso nella squilibrante sproporzione tra mezzi e fine.


Se infatti uno non si pensasse detentore di alcuna verità assoluta, come nel caso del relativismo occidentale, ci sarebbe ancora spazio per un‘idea di tolleranza (concetto peraltro ambiguo e potenzialmente violento, seppur in altro modo). Molto di più se uno si pensa raggiunto dalla verità assoluta, ma perché graziato da un Mistero buono e paterno, che gli dà, Lui, la forza e gli permette di usare mezzi soprannaturali (la carità e il perdono, soprattutto); allora avremmo un quadro di autentica non-violenza: è il caso del Cristianesimo. Per il quale posso perdonare, perché la mia Forza è un Altro; posso amare oltre i limiti naturalistici della simpatia istintiva, perché un Altro me lo permette, partecipandomi la Sua stessa vita, che è carità.

Dunque abbiamo da lato il relativismo, la cui formula potrebbe essere “mezzi naturali senza verità assoluta”, e dall’altro il Cristianesimo, la cui formula potrebbe essere “verità assoluta e mezzi soprannaturali”.

L’islam invece mescola, cortocircuitando, i due fattori: la verità assoluta e i mezzi puramente naturali. Ne risulta inevitabilmente una strategia per cui l’assoluto deve essere imposto con mezzi naturali, l’infinito deve essere imposto con mezzi finiti, il divino con mezzi puramente umani, l’altissimo con mezzi bassissimi.

Ora tra tali mezzi, bassi, finiti, puramente umani, di fronte al dato di fatto che non tutti accettano la rivelazione islamica e non tutti si comportano secondo tale rivelazione, che pure ha un valore di certezza assoluta, è inevitabilmente presente la coercizione, che può giungere anche alla guerra (santa) e alla violenza.

Qui sta, a nostro avviso, la radice della, come dire, predisposizione islamica all’uso della coercizione, e la radice remota della violenza nelle sue varie forme.


Vediamo di specificare ulteriormente, a partire dal senso del termine naturalismo. Il senso fondamentale è quello già detto: per l’islam l’ambito umano, creaturale è abissalmente separato dall’ambito increato, divino.

C’è poi tutta una serie di implicazioni: se Dio non interviene nella storia, se non si coinvolge in essa, bisognerà pensare che non ce ne sia bisogno: di qui la riduzione del peccato originale a poca cosa, circoscritta ai progenitori; la natura umana è integra, non malata; con le sue sole forze può conoscere fino in fondo quanto le occorre e operare come deve.

Ulteriore implicazione: per poter osservare con le sole forze naturali la Legge rivelata, occorrerà delimitarne drasticamente la portata: di qui il carattere circoscritto, e prevalentemente esteriore, della moralità secondo l’islam. Che non chiede di “essere perfetti come il Padre” (=infinitamente), ma fissa con tratti molto marcati un perimetro circoscritto di regole naturalisticamente intese.

Entrambe queste implicazioni confluiscono nel tema violenza: perché se l'uomo è in uno stato di natura integra e non decaduta, non ha nessuna scusante al suo male, e dunque chi sbaglia non merita alcuna compassione, ma deve essere sferzato e schiacciato con impazienza.

E ciò tanto più se ciò che deve essere fatto da ogni uomo non è un ideale di perfezione (infinita), che susciti quindi un senso di grande discrezione verso gli altri (“non giudicate”!), ma è un ben delimitato e limitato quadro di regole in gran parte esteriori. Come dire: l’islam chiede poco, ma quel poco che chiede lo vuole senza appello e senza pazienza alcuna.

Non sarà un caso infatti se pratiche come la lapidazione e l’amputazione di varie parti anatomiche sono un patrimonio mai rinnegato in molta, sarebbe stato meglio direnella tradizione mussulmana.


note


[1]Così gli stessi allarmi contro il terrorismo e gli stessi arresti di terroristi, che pure in questi due anni ci sono stati, vengono visti ormai quasi con fastidio: come dire, “basta, non pensiamoci più!”. Già a fine 2002 personaggi come Alex Zanotelli e Gino Strada sostenevano che l'11 settembre era stata sostanzialmente una messa in scena, un pretesto sfruttato dall'America per egemonizzare il pianeta. Questo ci ricorda quel noto intellettuale francese, Gilles Kepel, che in un libro del 2000, aveva saviamente spiegato al mondo che la Jihad era ormai affare del passato e che l'attentato alle Twins Towers (quello fallito, degli inizi anni '90, l'unico che l'autore a quel tempo conosceva) era una grossa bufala, senza alcuna possibilità di riuscita (p. 344 della ed. italiana, Jihad. Ascesa e declino, apr. 2001). Il fatto è che se si rimane prigionieri di schemi logori, come il materialismo economicista, ci si preclude non solo l’intelligenza di certi fenomeni, ma la stessa constatazione della loro esistenza.

[2]Lo vorremmo distinguere, analogamente al “comunismo reale” del XX secolo, da un “Islam del desiderio”, un “Islam immaginario”, che “sarebbe molto bello” se fosse, ma purtroppo non è, se non nella fantasia dei Dario Fo e dei Michele Santoro.